Giocatore di football per curiosità, difensore per necessità, Panther per amore. Matteo Malpeli, defensive end classe 1975, è l’emblema del giocatore di football formato italiano, quello che si ritrova nel libro di Grisham: molto impegnato col lavoro, non più giovanissimo, ma disposto a sacrifici per giocare lo sport che ama con la sua squadra “sono un Panther da quando ho cominciato e lo sarò fino a quando smetterò”. Malpeli è da 11 anni nella famiglia Panthers, ed ha vissuto in pieno il passaggio di consegne tra la vecchia guardia e la nuova, che ha raccolto il testimone continuando a vincere in Italia.
Matteo, come hai cominciato col football
americano?
«Per
caso. Era il 2003, stavo correndo in Cittadella quando ho visto dei ragazzi che
si allenavano. I Panthers erano appena tornati assieme e quelli erano i primi
allenamenti in Cittadella. Mi sono fermato a guardare, ho fatto due chiacchiere
col coach e dal giorno dopo ero assieme a loro ad allenarmi».
Difensore per vocazione o per necessità?
«Per
necessità. Premetto che ora non farei mai cambio con un altro ruolo. All’epoca
avevo cominciato come ricevitore e tight end, ma proprio in quel periodo gli
impegni lavorativi stavano diventando sempre più pressanti e per giocare in
quei ruoli bisogna allenarsi con costanza per imparare bene gli schemi e
trovare l’intesa col QB. Purtroppo non potendo avere una costanza
nell’allenamento abbiamo pensato ad un'altra collocazione e la difesa era
quella che più mi si addiceva».
11 anni con in mezzo una pausa sempre a
causa del lavoro. Sei tornato in tempo per cominciare a vincere. Ti ricordi il
primo scudetto?
«Certo.
E’ stata una grande emozione, anche perché quella era una squadra con molti
giocatori provenienti dal campionato Arena, ma il gruppo era straordinario e ci
siamo scoperti col passare della stagione. Devo dire però, che fin dalla prima
partita contro Bolzano abbiamo sentito che in quella squadra c’era qualcosa di
speciale. Guardando indietro posso dire di aver avuto un grande tempismo, o
meglio diciamo fortuna nel tornare in squadra in un periodo di grandi
vittorie».
Lavoro, lavoro, lavoro. Quanto è dura far
parte della squadra campione d’Italia e conciliare tutti gli impegni?
«E’
dura, perché è vero che ai Panthers ti mettono nelle migliori condizioni per
giocare a football, ma è altrettanto vero che si lavora tanto. Ci sono tre
allenamenti alla settimana, la partita, il lavoro in palestra che è fondamentale
per questo sport. Gli stimoli li trovo dalla passione e del fatto di trovarmi
di fronte e di fianco giocatori di altissimo livello, certamente i migliori in
Italia e penso ad esempio a Bonni (Bonato N.d.R.), Vergani, Bernardoni,
Scintilla (Fontanili N.d.R.). Misurarmi con loro in allenamento è sempre una
sfida per me».
Hai elencato alcuni dei tuoi compagni
attuali, ma non ti mancano i grandi vecchi?
«Mi
mancano ed anche molto. Devo molto a loro, a Big Mike (Michele Scaltola N.d.R.)
che adesso è tornato sulla sideline per aiutarci con la linea, ma anche a
Lanzo, il Gede e agli altri che mi hanno accolto al mio ritorno in squadra come
se non me ne fossi mai andato. Li vedo sugli spalti e vorrei averli in campo, a
fare allenamento, con la loro goliardia. Non faccio confronti con i ragazzi di
adesso, ma ovviamente sono due cose differenti. Con alcuni dei “vecchi” mi
sento durante la settimana, ci frequentiamo fuori dal campo. Purtroppo il tempo
passa per tutti e non si può giocare assieme per sempre».
Siamo quasi alla fine della stagione
regolare. In Italia siete imbattuti, come vi preparate ai playoff, quali sono
le difficoltà più grandi per una squadra che di fatto sta dominando il
campionato da anni?
«Noi
ci confrontiamo con noi stessi. E’ vero che l’importante è vincere, ma non è
così scontato giocare bene anche quando vinci 45 a 0. Bisogna trovare gli
stimoli per essere sempre al massimo, attenti e concentrati, non è facile, ma
abbiamo le qualità per vincere questa sfida con noi stessi».
Come la partita di coppa. Da 20 a 0 al
pareggio per arrivare purtroppo alla sconfitta agli ultimi minuti di gioco.
Sono quelli i veri Panthers?
«Quella
partita è la fotografia perfetta di cosa può essere la nostra squadra. Dopo 5
minuti eravamo sotto di 20, potevamo mollare e prenderne altri 20 ed invece
abbiamo reagito pareggiando e sorpassando i francesi. Purtroppo non è andata
come volevamo, ma dobbiamo ripartire da qui».
L’obiettivo dei Panthers è sempre e solo
uno: vincere il quinto titolo consecutivo. Chi sono gli avversari più
credibili?
«Se
devo fare due nomi dico Giants, contro i quali dobbiamo ancora giocare e
Seamen, gli unici che forse ci hanno messo più in difficoltà e che comunque
sono cresciuti durante la stagione. Ma ripeto, il nostro avversario più
temibile siamo noi».
Stefano Manuto