giovedì 22 novembre 2012

NFL, uno sguardo sul fondo

Pubblicato su Raisport.it qui.

Un accenno a quel che si può trovare di interessante nella Nfl. Con la solita suddivisione in down, come i "tentativi" a disposizione per ogni squadra per l'avanzamento di almeno 10 yard.

PRIMO DOWN - I San Diego Chargers proprio non ce la possono fare. Domenica, a Denver, quinta sconfitta nelle ultime sei partite, bilancio di quattro vittorie e sei ko e addio virtuale alla possibilità di vincere la AFC West, anche se teoricamente un accesso ai playoff come wild card è ancora lì. Lì, cioè lontanuccio, se non si troverà il modo di rimediare a problemi che sembrano cronici, in attacco. A partire dalla linea: il lato sinistro ha avuto un calo, perché i giocatori che hanno sostituito i ritirati Marcus McNeill e Kris Dielman non son stati all'altezza, ed è in parte per questo motivo se il quarterback Philip Rivers ha dovuto improvvisare più di quanto non avesse fatto in passato. L'attacco dei Chargers è sempre stato molto efficace, con Rivers alla guida, ma quest'anno le cifre complessive sono inferiori al solito, e lo stesso quarterback pur avendo completato il 67,1% dei suoi passaggi - settimo di tutta la Nfl - ha lanciato solo 17 touchdown e subito 14 intercetti. Quel che è peggio è che la percentuale di intercetti sui lanci effettuati è per Rivers la peggiore tra i primi 32 pari-ruolo presenti nelle statistiche. Troppo spesso il ragazzone dell'Alabama ha dovuto lanciare in condizioni precarie a causa della pressione della difesa, e in alcuni casi ha voluto a tutti i costi provare a completare un passaggio finendo con il recapitarlo ad un avversario, come accaduto due volte nella brutta sconfitta a Tampa di domenica 11 novembre e come magari era abituato a fare fino allo scorso anno, quando in squadra c'era Vincent Jackson che per fisicità, mani e statura poteva raccogliere palloni anche ardui da tenere. Come tutti i qb, Rivers deve dimostrare di sapersi mettere alle spalle gli errori senza perdere nulla del coraggio e della sicurezza di sé che sono condizioni necessarie per il ruolo, ma in alcuni casi farebbe meglio a seguire il vecchio consiglio di buttare via il pallone piuttosto che rischiare l'intercetto. Consiglio che fu per primo il padre, allenatore di liceo, a dargli. E non è che Rivers, all'apparenza molto testardi, sia impermeabile ai dettami altrui: rispetta ad esempio alla lettera le prescrizioni del cattolicesimo e si dice contento di essere nato l'8 dicembre, giorno dell'Immacolata Concezione, ma è anche questo il motivo per cui si sposò presto, a nemmeno 20 anni (non del tutto fuori tempo per la parte d'America da cui proviene, peraltro). Come mai? Semplice: era contrario al sesso prematrimoniale, e probabilmente non si riteneva in grado di esercitare la necessaria temperanza troppo a lungo (ora ha sei figli, tra l'altro). Tornando al football, con una difesa efficace come quella vista quest'anno, ai Chargers basterebbe aumentare di un 15% la propria produzione offensiva per tornare a giocarsi un posto nei playoff dalla porta di servizio, ma sarà dura.

SECONDO DOWN - Fine novembre. E tornano i New York Giants. In più di un senso: tornano, dopo una settimana di riposo ("bye", nel gergo sportivo americano). Tornano, perché una misteriosa e inespugnabile combinazione di motivi fa sì che negli ultimi anni la squadra trovi la corretta combinazione di attacco, difesa e special team nel periodo che va dal Giorno del Ringraziamento ai playoff. Compresi, ovviamente, ovvero il vero momento della stagione in cui è necessario essere in forma. Non è cabala, non è un "precedente", ma qualcosa che evidentemente nemmeno coach Tom Coughlin riesce a identificare, altrimenti avrebbe posto rimedio a una situazione che, vista da una diversa angolazione, vede i Giants COSTRETTI a rilanciarsi dopo un inizio non eccezionale. Attenzione: la squadra è prima nella NFC East con sei vittorie e quattro sconfitte, ma ha una sola partita di vantaggio sui Dallas Cowboys e a sei gare dal termine è un margine non sufficiente, considerando anche che i due confronti diretti sono già stati giocati e sono sull'1-1, per cui in caso di parità finale verranno considerati gli esiti delle partite contro le altre squadre della division… e i Cowboys al momento sono in vantaggio. Dunque, non siamo alla quasi tradizionale situazione di Giants in ritardo e costretti a tirarsi il collo per arrivare ai playoff: ma dopo due sconfitte consecutive, pure bruttine, la sosta è arrivata giusta giusta per rilassare muscoli contratti e soffiare via nuvole da cervelli oscurati. A quanto riferiscono i media, dopo alcuni giorni di riposo i giocatori al ritorno agli allenamenti hanno convocato una riunione interna per discutere di qualsiasi argomento utile a migliorare la situazione, e a quanto pare è emersa qualche indicazione per un cambiamento di rotta. Justin Tuck, il capitano della difesa, ha addirittura detto «per come abbiamo giocato le ultime quattro partite siamo fortunati ad essere 6-4», chiara indicazione che nemmeno nelle vittorie i giocatori erano particolarmente soddisfatti di ciò che avevano messo in campo. La riunione pare sia stata ispirata dalla consulenza che un gruppo di ex piloti di caccia, chiamato Afterburner, ha dato ai Giants sia lo scorso anno sia pochi giorni fa, il 12 novembre. Pure Eli Manning, sospettato nell'ultimo mese di avere un "braccio stanco", che ha normalmente reazioni blande alla maggior parte delle situazioni, ha commentato in modo positivo il ritorno agli allenamenti, il che torna molto utile se si pensa che la prossima partita dei Giants è contro Green Bay e che nessuna delle cinque successive si presenta particolarmente agevole. La maggiore soddisfazione? Nessuno dei giocatori ha detto "ora ci attendono sei finali". Evviva.

TERZO DOWN - Torniamo alla AFC West. Con Kansas City. E i suoi tifosi. Argomento delicatissimo, questo. In generale, dei tifosi non si dovrebbe mai parlare, men che meno nelle classiche situazioni all'italiana in cui gruppi organizzati pretendono di indirizzare la politica del loro club assicurandosi con la prepotenza e l'intimidazione incontri con dirigenti, giocatori e allenatore. In America situazioni del genere non possono verificarsi, per via della diversa cultura (e della fortunata mancanza di tifo organizzato), ma la pazienza la perdono pure laggiù, e non poco. Solo che la loro frustrazione viene espressa in modo diverso. Domenica, all'Arrowhead Stadium di Kansas City, moltissimi spettatori indossavano magliette o indumenti di colore nero, in segno di… lutto per la pessima annata dei Chiefs, che fino a quel momento avevano una vittoria e otto sconftte, e di protesta per la gestione della squadra da parte del proprietario Clark Hunt (figlio di Lamar, fondatore di… quasi tutto quel che c'è di sportivo negli Usa e anche grande appassionato di calcio) e del general manager Scott Pioli. Niente intimidazioni di mentalità mafiosa, niente lanci di oggetti: una protesta silenziosa, corroborata dal volo di un aereo che trascinava uno striscione di dissenso, per la terza volta quest'anno, e dal fatto che molti semplicemente allo stadio non sono andati. E parliamo di una squadra nota negli ultimi decenni per la passione della propria gente e l'impressionante macchia rossa che riempiva l'Arrowhead nei giorni delle partite, rendendolo uno degli ambienti più belli della Nfl. Della squadra attuale non piacciono, ai tifosi normali e a quelli che si riconoscono nel sito saveourchiefs.com, finanziatore degli striscioni avio-trainati, le scelte di Pioli, arrivato da New England nel 2009 con l'etichetta di genio della programmazione, la gestione di Hunt, volta a loro avviso al risparmio più che alla conquista, la conduzione tattica del coach Romeo Crennel e il rendimento del quarterback Matt Cassel, ex New England. Non è questione di risultati, dicono, ma di assenza di progressi e anzi di pericolo di crollo, per un club che non arriva al Super Bowl da 42 anni. Ma se ad essere scontenti in giro per la Nfl sono i tifosi di tante squadre («al Super Bowl ogni anno ne vanno solo due» ha ricordato un giocatore), quel che ha sorpreso è che la protesta sia stata così vistosa, eppure così civile, proprio a Kansas City, famosa per la sua passione. Anche se non sempre c'è stata pulizia totale di comportamento: quando Cassel uscì infortunato dal campo, il mese scorso, una parte del pubblico esultò, venendo poi solennemente rimproverata nel dopo-gara da Eric Winston, uno dei migliori giocatori della squadra, appena arrivato da Houston. Il guaio è che non si vede la fine del buio, a meno che qualcosa non cambi. Non certo il proprietario, ovviamente: forse il gm, forse Crennel, che due settimane fa cedette a Gary Gibbs il ruolo di defensive coordinator e pochi giorni prima aveva detto «non ho idea del perché Jamaal Charles abbia portato palla così poco», forse Cassel, che però ha un contratto molto pesante. Quel che si sa è che a un mese e mezzo dal termine della regular season per i Chiefs la stagione è già a rotoli, e con altre due partite in casa nei prossimi quindici giorni lo scenario diverrà ancora più triste. Basta che nessuno ci rimanga secco: in un necrologio pubblicato qualche giorno fa nel quotidiano locale, e subito ripreso sul web, si leggeva che il signor Loren Lickteig è deceduto lo scorso 14 novembre per "complicazioni da sclerosi multipla e crepacuore causato dai Kansas City Chiefs". Forse uno scherzo dei figli, forse una frase che il signor Lickteig ha voluto far inserire, ma insomma ci siamo capiti.

QUARTO DOWN - Quarto e uno, restiamo corti, avendo esagerato nei tre down precedenti. Con una curiosità, semplice curiosità: ad operare Darrelle Revis, il grande cornerback dei New York Jets che due mesi fa aveva subito la rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro, è stato un ortopedico piuttosto noto, il professor Russ Warren. Embé? Beh, Warren, che ha 70 anni e lavora al rinomatissimo Hospital for Special Surgery di New York ma ha anche un ambulatorio in una cittadina del Connecticut dove risiedono i ricchi pendolari (come lui) che lavorano a Manhattan, è il medico dei… New York Giants. Da oltre 30 anni. E con i Giants aveva anche fatto un provino nel 1961, senza successo. Poi, come professionista ovviamente Warren opera chiunque si rivolga a lui, ma è curioso che

Roberto Gotta

mercoledì 14 novembre 2012

NFL, Philly e le altre

Pubblicato su Raisport.it qui.

PRIMO DOWN - La notte scorsa i Kansas City Chiefs hanno perso la loro ottava partita stagionale, a fronte di una sola vittoria. E per la PRIMA VOLTA in campionato sono stati in vantaggio: è successo a 8'37" dalla fine del primo quarto, sulla corsa in touchdown di Jamaal Charles che ha dato loro il 7-0 sui Pittsburgh Steelers, poi vittoriosi 16-13 al supplementare. D'accordo che le statistiche e le curiosità spesso sono solamente tali, senza voler dire nulla di concreto, ma era dal 1929 (!) che una squadra non riusciva ad andare in vantaggio nemmeno di un punto nelle sue prime otto gare, e 83 anni di football professionistico sono tanti. In occasione dell'unica vittoria, arrivata alla terza gara, i Chiefs avevano infatti solamente pareggiato alla fine del tempo regolamentare, e nel momento il cui il field goal (calcio da tre punti) del successo era passato attraverso i pali il cronometro si era fermato, per cui tecnicamente Kansas City non era stata in avanti neanche per un secondo. La notte scorsa, dunque, per la prima volta Brian Daboll, l'allenatore dell'attacco, ha potuto gestire azioni senza l'ansia di dover rimontare. E non per nulla i Chiefs, pur perdendo, hanno giocato una partita soddisfacente.

SECONDO DOWN - Si chiama contain (o containment), e in italiano viene tradotto come "contenimento" fin dagli albori del football. Traduzione accettabile, perché atta a colmare una lacuna del gergo tecnico nostrano. Fare "contenimento" significa in poche parole controllare l'esterno di una formazione difensiva. Uno dei primi consigli che vengono dati ai difensori è, in caso di avversario che con la palla si dirige rapidamente verso l'esterno per sfuggire al mucchio, quello di costringerlo a tornare verso l'interno del campo: come noto, la linea laterale è considerata un… difensore in più, ma non ha braccia e dunque non può fermare un giocatore che con la palla la stia sfiorando. Motivo per cui ci vuole sempre un difensore che con la sua presenza costringa l'avversario a rientrare all'interno, dove - a rigor di logica - è più facile che altri difensori anche in ritardo possano placcarlo. Si può obiettare che con la velocità che hanno alcuni giocatori Nfl una semplice deviazione in corsa non comporti conseguenze, ma bisogna ricordare che velocità simili le hanno spesso anche i difensori, e basta una frazione di secondo per fare la differenza tra un touchdown e un placcaggio. Perché questo infinito preambolo? Perché durante Philadelphia-Dallas di domenica sera, terminata 38-23 in favore dei texani, Dwayne Harris dei Cowboys (nella foto) ha segnato un touchdown di 78 yard su ritorno di punt, e in quella circostanza l'ultimo uomo degli Eagles in grado di ostacolarlo, proprio il punter Mat McBriar, ha fatto esattamente quello che non si deve fare: non ha preso decisamente l'esterno (contenimento) per fare "rientrare" Harris né ha cercato realmente di spingerlo fuori, come avrebbe forse potuto fare: è rimasto a metà, tuffandosi malamente quando era troppo tardi, ormai. Sia chiaro: non si trattava di un'azione difensiva ma appunto di una situazione di special team, e McBriar come punter non è tenuto a conoscere le minuzie dei difensori, ma il buon senso avrebbe dovuto consigliargli di fare quel passetto. L'azione è visibile da circa 3'05" qui, McBriar è il giocatore in maglia verde numero 1.

TERZO DOWN - Sempre su Philadelphia-Dallas: nel corso del secondo quarto il quarterback degli Eagles, Michael Vick, è stato messo ko ed è uscito, con la diagnosi di un trauma cranico non lieve. Al suo posto, in campo, Nick Foles, che ha fatto quel che ha potuto, ovvero non moltissimo, tanto che due suoi errori hanno portato a due touchdown della difesa dei Cowboys. Perdendo, per la quinta volta consecutiva, Phila è caduta a tre vittorie e sei sconfitte: stagione non rovinata dal punto di vista aritmetico, dato che mancano ancora sette partite e la testa della NFC East è dei New York Giants che hanno solo 2,5 vittorie di vantaggio, ma sul piano tecnico e tattico è chiaro che la squadra è in grave difficoltà su tutti i fronti. Vick - che comunque aveva lasciato perplessi per le sue scelte, come al solito - forse è fuorie l'ambiente è agitato, come spesso capita a Philly, città nota per la ruvidezza della tifoseria, nota per avere in passato (1999) esultato per l'uscita dal campo in barella di Michael Irvin dei Dallas Cowboys. Domenica erano già pronti striscioni e magliette inequivocabili, e non sottili: uno di essi recitava, parafrasando l'espressione (trim the fat) che si usa normalmente per chi deve smaltire chili, "eliminate il grasso… licenziate Reid", cioè Andy Reid, il corpulento head coach. Un gioco di parole che farebbe anche sorridere, se non fosse che Reid, più che rabbia, suscita quasi compatimento, per l'aria rassegnata che ha. In estate aveva perso un figlio per overdose di eroina, e la sua sagoma curva, apparentemente impassibile dietro al celebre baffo, domenica ha fatto molta impressione. Anche se poche settimane fa lo stesso Reid aveva compiuto un gesto raro, nella Nfl, quello cioè di sollevare dal suo incarico Juan Castillo, allenatore della difesa, e si era attirato giuste critiche perché dava l'impressione di avere sacrificato il suo collaboratore all'altare delle difficoltà che iniziavano a sorgere.

QUARTO DOWN - Il concetto che fa la fortuna dello sport americano è la cosiddetta "parity" (uguaglianza competitiva), la possibilità cioè per ogni squadra, con buona gestione e programmazione, di vincere un titolo entro un periodo ragionevole di anni. Il segreto è tutto lì: il tifoso del Chievo sa già che il suo club non vincerà mai lo scudetto ed è anche poco stimolato ad assistere anno dopo anno a lotte per la salvezza, ma il tifoso dei Los Angeles Clippers sa che alla sua squadra non è precluso per statuto, o per principio, di conquistare il titolo Nba. Se non ci riesce, è per inettitudine della dirigenza, dell'allenatore, dei giocatori, non per muri economici e fossati pratici, come nel calcio italiano (e non solo). Detto questo, nella Nfl 2012 ci sono situazioni preoccupanti su più livelli: Miami, Oakland, Jacksonville, Cleveland, Buffalo, Kansas City (di cui abbiamo già parlato). Situazioni che da anni sono infuse di mediocrità, perché le squadre messe in campo sono quasi sempre incapaci di sostenere un'avversaria anche di medio livello. Miami a dire il vero fino a domenica aveva un bilancio di 4-4 ma per la partita contro Tennessee (persa 37-3) è stata pressoché abbandonata dai suoi tifosi (vecchio problema di tutti gli sport, a Miami), e Buffalo ha tenuto testa a New England cedendo solo per un intercetto nel finale, ma l'idea generale è che i progressi siano così lenti, o inesistenti, da creare una frattura con squadre che invece sono gestite con saggia continuità, e alla Nfl certamente non fa piacere leggere punteggi come 55-20 (Baltimore-Oakland), ma non c'è un rimedio pratico. Non serve cambiare la composizione delle conference, come si farneticò in passato quando per tanti anni le squadre della National Football Conference dominavano quelle della American nei Super Bowl: basta avere pazienza e contare sulla competenza dei dirigenti delle squadre peggiori. Ed è qui che spesso la parità non c'è: ma è la natura a stabilirla, nella differenza tra bravi e mediocri. Nel calcio europeo, dirigenti mediocri con molti soldi possono spuntarla su colleghi bravi senza budget, e infatti le squadre di vertice sono sempre quelle, le più dotate di mezzi. Nessun dubbio su quale panorama sportivo sia più dignitoso.
Roberto Gotta

mercoledì 7 novembre 2012

Caramelle da conosciuti

Passata la metà di ottobre, i solerti uffici stampa dei college fanno partire le campagne per promuovere la candidatura dei giocatori più in vista per questo o quel premio, questa o quella squadra ideale (All-America). I metodi, specialmente dopo l'avvento dei social media, sono i più disparati, ma i più divertenti sono certamente quelli che puntano sull'effetto sorpresa. Facendo parte di un'associazione americana di giornalisti di football, a volte il materiale arriva anche a me, anche se il mio voto vale uno, e non giustifica certo la spesa per una spedizione oltreoceano. In certi casi però non si può che sorridere. Questa mattina, ad esempio, è arrivato un pacchetto da Louisville, con una cartolina e due chewing gum Super Bubble. Prego? La spiegazione è giunta in un attimo: la cartolina porta la foto del quarterback Teddy Bridgewater, sophomore eletto Freshman dell'anno nel 2011, e la scritta "Armed with more than just bubble gum" ("le sue armi? Ben più di una gomma da masticare"). Ma perché tutto ciò? La risposta è in una nota sul retro della cartolina, dopo l'elenco di record e traguardi raggiunti dal qb: "secondo un articolo del New York Times, Teddy Bridgewater si infila 4 bubble gum nei calzini prima di una partita, per sentirsi più tranquillo". Capito.

Chicago si difende bene

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RIMO DOWN - Il calendario è difficile nella seconda parte della stagione, ma è innegabile che i Chicago Bears stiano facendo impressione, per le sette vittorie (contro una sola sconfitta, a Green Bay) e soprattutto per le splendide prestazioni della difesa. Parlare di difesa a Chicago porta a riflessi pavloviani che innescano subito il ricordo della squadra del 1985, campione Nfl dopo una stagione che la vide mettere in campo un reparto tra i più distruttivi che la lega avesse visto. 15-1 in regular season, con 11 avversari tenuti a 10 o meno punti, due vittorie a zero nei playoff e nel Super Bowl XIX di New Orleans del gennaio 1986 un 46-10 ai danni di New England, a galla solo nei primi minuti, poi dominata. Era la squadra allenata da Mike Ditka ma con un defensive coordinator, Buddy Ryan (padre di Rex e Rob, attuali coach Nfl), così influente da essere portato in trionfo dai suoi giocatori a fine Super Bowl, quasi a rappresentare la frattura che si era creata in un gruppo per nulla armonico (Jim McMahon, il qb, ad esempio odiava Dan Hampton, il più rappresentativo degli uomini di linea, e sentimento non dissimile separava Ditka e Ryan) ma inarrestabile. Era la famosa difesa "46", dal numero di Doug Plank, il safety che era stato tra i più influenti giocatori della prima fase di questa difesa, nata di fatto nel 1979 ma divenuta travolgente con il passare del tempo e l'arrivo di giocatori migliori rispetto a quelli che l'avevano inizialmente interpretata. Come era? Il principio di base era inedito: uomini di linea di difesa di fronte al centro e alle due guardie, per impedire loro di aiutare nei raddoppi, poi un quarto (un defensive end) dal lato debole, ovvero quello in cui l'attacco non ha un tight end, e gli altri giocatori molto vicini alla linea di scrimmage, a fermare le corse e creare pressione, con grande responsabilità lasciata ai cornerback, spesso isolati in uno contro uno ma favoriti dal ridottissimo tempo che i quarterback, in genere, avevano per lanciare. Ora, la difesa dei Bears del 2012 non può essere paragonata a quella, perché sono cambiati i tempi e gli attacchi, ma gli uomini di linea restano quattro (molte squadre ne schierano invece tre) e i risultati sono impressionanti: nel 51-20 a Tennessee i Bears hanno segnato ancora un touchdown con la difesa, il settimo della stagione, aggiungendone uno con lo special team di ritorno punt, che ha bloccato un calcio dei (malandati, va detto) Titans. Con i ben cinque fumble provocati, di cui quattro da parte dell'attualmente esplosivo cornerback Charles Tillman, i Bears sono a quota 28 palloni tolti agli avversari, contro i soli 12 persi, miglior differenziale della Nfl e motivo massimo per l'ottima prima metà di stagione della squadra. Metà, appunto: le prossime due partite sono contro gli Houston Texans (pure loro 7-1) e i San Francisco 49ers, il resto del calendario non è agevole e allora culliamo i Bears finché sono lì in alto. Dovessero restarci, onore a loro.

SECONDO DOWN - Vincendo contro Kansas City nel Thursday Night, San Diego è salita a quattro vittorie e altrettante sconfitte, in una stagione fin qui deludente come molte delle precedenti. Conta poco che in passato i Chargers abbiano spesso rimontato e accelerato verso fine novembre, entrando alla fine nei playoff (non nell'ultimo biennio, però): i precedenti sono solo una curiosità, non una guida per il futuro, anche se lo staff tecnico è in gran parte il medesimo, così come la preparazione. Curiosità è piuttosto che nei Chargers giochi come linebacker titolare, per la precisione uno dei due linebacker interni nella difesa 3-4, Takeo Spikes, 36 anni tra poco più di un mese, un nome di battesimo che i genitori gli diedero dopo aver sentito nominare in televisione un primo ministro giapponese. Spikes è un buon giocatore e professionista molto serio, altrimenti non sarebbe ancora in campo alla sua età in un ruolo molto impegnativo, ma ha la sua scelta di tempo al momento di firmare i contratti è agli antipodi di quella che ha in campo nei placcaggi. Pur avendo infatti vestito la maglia di cinque squadre dal 1998 ad oggi infatti non ha mai giocato una partita di playoff. Ovvero, nessuna di quelle squadre li ha mai fatti. Ridicolo credere a maledizioni e altre facezie del genere, ma si rabbrividisce nel notare che nel 2004 i Buffalo Bills, di cui vestiva la maglia, non entrarono nei playoff a causa di una sconfitta nell'ultima partita, contro Pittsburgh che era già tranquilla e per quel motivo aveva tenuto a riposo il quarterback titolare Ben Roethlisberger. E che il 2007, unico anno di Spikes a Philadelphia, fu anche solo la seconda stagione tra il 2000 e il 2010 in cui gli Eagles non arrivarono ai playoff. Forza e coraggio.

TERZO DOWN - La scena, ad ogni draft della Nfl, è bella, quasi commovente: il giocatore appena uscito dal college che viene ripreso dalle telecamere nella casa dei genitori, circondato da amici e parenti che lo sommergono di abbracci nel momento in cui gli viene comunicato di essere stato scelto. Quel che accade quando il pulmino della Espn se ne va, o si chiude la webcam, è altro discorso. Nella maggioranza dei casi in realtà non succede nulla, ma in alcuni, che però fanno molta notizia, l'arrivo del benessere e dell'improvvisa ricchezza si contorce come un tornado, e spazza via i buoni sentimenti e dignità. Di recente, proprio la Espn ha mandato in onda un documentario che racconta le tristissime storie di atleti ridottisi sul lastrico per scarso senso degli affari, truffe subite o pessima gestione dei propri denari, e purtroppo il materiale per questo tipo di inchieste viene costantemente fornito dai non pochi sciagurati che vestono una divisa da professionista dello sport. È notizia di pochi giorni fa che Tyron Smith, offensive tackle di Dallas, alla sua seconda stagione nella Nfl, ha dovuto chiamare la polizia per liberarsi di tre persone che stavano cercando di entrare nella sua casa: tra queste, due sorellastre (Smith ne ha tre, più due fratellastri), ultima tappa di una storia tristissima che ha coinvolto il giocatore. Il quale solo quattro mesi fa aveva ottenuto da un giudice un'ordinanza che impediva alla madre e al patrigno di avere contatti con lui, proibendo loro anche di avvicinarsi al luogo, in California ovvero dove risiede la famiglia, in cui i Cowboys svolgono la preparazione estiva. Alla base di tutto, dice Smith tramite un avvocato, le continue richieste di denaro di madre, patrigno e altri componenti del nucleo familiare, al quale tra l'altro il giocatore aveva fatto una non piccola donazione una volta firmato il primo contratto da professionista, 12.5 milioni (lordi). Madre, patrigno eccetera replicano parlando di influenze negative che la fidanzata di Smith, di cinque anni più vecchia di lui, eserciterebbe sul ragazzo, esortandolo a tagliare fuori la famiglia di origine, mentre emerge anche che mancherebbe dai conti dell'ultimo anno un milione di dollari, e non casualmente Smith si sarebbe liberato di un consulente finanziario cui si era rivolto subito dopo il draft su consiglio della madre e del patrigno. Comunque sia, un grosso inghippo, non nuovo purtroppo: capita, quando un atleta è sospeso tra il concetto del "keeping it real", una sorta di esortazione alla fedeltà verso chi ti ha allevato e chi ti è stato amico prima della fama, e la necessità di vivere liberamente, senza buttare soldi in improbabili avventure commerciali che il compagno di infanzia di turno ti propone non appena hai due dollari. Curioso peraltro che il keeping it real, parlando come si mangia il "tenere i piedi per terra" senza montarsi la testa e abbandonare i conoscenti di una vita, porti invece spesso al risultato opposto, quello cioè di perdere contatto con la realtà e rovinarsi. In bocca al lupo a Smith, e agli altri come lui.

QUARTO DOWN - C'è modo e modo di essere provinciali, e quando si parla di sport americano, nella sua proiezione europea, il provincialismo può assumere toni differenti. Tra i cronisti che si occupano di sport americano da più tempo, uno dei "divertimenti" più amari è vederlo esplicitato quando si svolge in Europa una partita di una lega Usa e lo sprovveduto di turno, quasi sempre giornalista locale o comunque non esperto, se ne esce con la solita domanda, talmente scontata da far cadere le braccia: "quand'è che avremo una squadra fissa in Europa?". Il commissioner di turno adotta il rituale tono benevolo e risponde in maniera vaga e diplomatica, e altro tempo intanto viene sottratto a temi più seri. Ma il cronista locale, che spesso è provinciale nell'animo (e non ci sarebbe nulla di male se non fosse per queste drammatiche uscite pubbliche), ha la sua rispostina, e la soddisfazione (?) di aver fatto la domanda al grande capo. In realtà, le probabilità che sorga un club ("franchigia") in Europa sono molto basse, per i prossimi dieci anni. Nba: impossibile, per motivi legati ai viaggi costanti. Nfl: improbabile, checché ne dica tra gli altri Robert Kraft, proprietario dei New England Patriots, che domenica 28 ottobre a Wembley hanno battuto 45-7 i St.Louis Rams. Sesta partita consecutiva di regular season Nfl a Londra, tradizione aperta nel 2007 con Miami Dolphins-New York Giants, e il cui successo, con oltre 84.000 spettatori (record stagionale della NFL). L'anno prossimo ci saranno due appuntamenti, Minnesota Vikings-Pittsburgh Steelers il 29 settembre e Jacksonville Jaguars-San Francisco 49ers il 27 ottobre. Nel caso dei Vikings, la partita "casalinga" nasce mentre si costruisce il nuovo stadio, mentre Jacksonville ha scelto di giocare a Londra una partita "in casa" per i prossimi quattro anni. E si è appunto tornati a parlare, Kraft compreso, di una squadra fissa nella capitale del Regno Unito, ospitata magari dall'ex stadio olimpico. Bei discorsi, ma che a volte ci paiono campati in aria: avere più di 80.000 persone una volta l'anno a Wembley non significa poterne avere altrettante 8 volte a stagione per una squadra locale. Anche perché la stragrande maggioranza dei presenti ha normalmente addosso la maglia della propria franchigia Nfl preferita, e partecipa alla partita come ad una festa annuale del football: sarebbe, questa gente, disposta a mettere da parte un tifo a volte pluridecennale per appoggiare i London Monarchs o come diavolo si potrebbero chiamare? Una parte non ridotta del pubblico di Wembley, inoltre, proviene dal resto dell'Europa, e un conto è fare il viaggio una volta l'anno, un conto doverlo affrontare altre sette volte, come richiederebbe il calendario. A nostro avviso, gli ostacoli sono troppi, e non è nemmeno che il football, seppur molto supportato dalla Nfl nel Regno Unito, sia poi lassù in cima agli interessi del pubblico: una base molto solida esiste, ma come faceva notare l'altro giorno un editorialista ben informato la Nfl è comunque solo al settimo posto nella classifica di audience di Sky Uk. Occhio a non fare passi falsi, anche se dettati dall'entusiasmo, che non è mai una cattiva base di partenza.