mercoledì 30 marzo 2011
IFL Magazine su Raisport1
La prima puntata è prevista per domani sera, giovedì, alle ore 23.45, o comunque dopo la fine del tg sport.
domenica 27 marzo 2011
Doves-Panthers
19-41 ed è stato il risultato finale, forse lo sviluppo meno imprevisto della serata. Che Parma fosse decisamente più forte, più numerosa negli uomini e più rodata dei Doves Bologna era, e resta, una delle poche sicurezze di un torneo, quello IFL, che nelle prime settimane di stagione porge necessariamente più dubbi che sicurezze: per la precaria identità di squadra di chi spesso non riesce ad allenarsi con profitto a causa delle condizioni del tempo, dei veti delle amministrazioni, dei ritardi negli arrivi degli americani e per tutto il cupo arcobaleno di difficoltà che chi fa football in Italia deve subire, o a volte autoinfliggersi. Nel caso dei Doves, tutto quello che normalmente ruota attorno al mondo del football italiano in termini di voci, verità, voci fatte passare per verità e verità contrabbandate come voci si era concentrato a formare un enorme punto interrogativo. E allora i fatti, spazzando via tutto il resto con una spallata, legale perché portata frontalmente: sì, i Doves hanno un organico ridotto, sabato erano in una trentina in tutto; sì, di questa trentina molti sono giovanissimi, ben al di sotto dei 20 anni, e dunque inesperti; sì, gli allenamenti comuni sono stati pochi; sì, un gruppo di giocatori ha lasciato la squadra, andando verso nord; sì, uno degli americani, il running back Chris Markey che aveva credenziali notevoli per un bel passato a UCLA, è già ripartito, sostituito da pochi giorni da un ricevitore; e infine sì, un altro del trio, Nick Hasselberg, non è stato particolarmente prodigo di pensieri positivi nel suo blog, che riflette peraltro lo stato di incertezza che ogni statunitense fresco di college affronta al suo arrivo in un'altra nazione di lingua diversa. Ma tutto ciò, che mescolato ad alta velocità può diventare un cocktail dalla combustione rapida, ieri sera, nel dopopartita, si era invece trasformato nella placida contemplazione di un traguardo tagliato, quello di essere in campo tutti assieme e farsi onore, relativamente alle circostanze, contro la squadra campione d'Italia, che pure dal terzo quarto in poi ha cominciato a mettere dentro le riserve, specialmente in difesa. Potrà piacere poco a chi si auspica che in tutte le partite siano in campo squadre di valori simili, ma non è casuale che ai giocatori bolognesi fosse stata data la maglietta con la scritta "Io c'ero": perché dopo un anno di sosta, un numero consistente ancorché sommerso di problemi, una fusione (con gli American Felix di Molinella) con cambio dirigenziale e molti intoppi il traguardo primario da tagliare, per paradosso, era quello di giocare, intanto. Mentre prosegue il reclutamento di giocatori, non facile visto il periodo, e si cerca di stabilizzare la neo-costituita polisportiva Metropolitan Doves. Qualcosa sicuramente si può fare: il pericolo nell'avere ragazzi di età davvero acerba è ovviamente che il processo di crescita sia eccessivamente duro e li porti più allo scoramento che alla determinazione, perché nel football non ti prendi un tunnel tra le gambe ma una cascata sul fianco, ma vedere dopo la partita il viso imberbe - termine usato in senso letterale - di uno degli uomini di linea d'attacco, sorridente nonostante le difficoltà incontrate, ha spostato l'indicatore sul sereno, in mancanza di altro. La partita era iniziata con un sack di Hasselberg su Tommaso Monardi, con un blitz - uno dei diecimila che Hasselberg ha provato - dal lato destro della linea offensiva di Parma, poi erano arrivare le segnature dei Panthers, tre nel primo quarto con due corse (Taylor per 20 yards e Malpeli Avalli per 6 intervallate dal td pass di 35 yards di Monardi per Tanyon Bissell, scivolato oltre l'ultimo uomo del backfield difensivo bolognese nonostante l'evidente situazione di lancio), mentre dall'altra parte erano evidenti la mancanza di sincronizzazione e di un numero sufficiente di allenamenti dell'attacco dei Doves: prima di un assestamento arrivato principalmente nell'ultima parte di gara, sono stati numerosi gli snap inefficaci sulla shotgun, con palloni troppo lenti e corti che vanificavano qualsiasi vantaggio che la shotgun stessa poteva dare, e troppo forte la pressione della linea difensiva parmense per consentire al Qb John White di mostrare le proprie doti. Non è lanciando costantemente con un piede sollevato, e dovendo dunque utilizzare la sola forza del braccio senza poter eseguire il corretto movimento con lo slancio dell'intero corpo, che si può dare sfoggio di sé. Lanci immediati per evitare la pressione e nella direzione generica di John Studley, il ricevitore ex Bentley University (come White) appena arrivato in sostituzione di Markey e corse spesso in draw per sorprendere l'arrembante difesa parmense volgendo a suo sfavore proprio la potente pass rush (per chi non conoscesse il football, si indica con pass rush la pressione al quarterback), questa la ricetta dei Doves in attacco, coronata peraltro da un bel touchdown di Hasselberg (8 yards) che aveva tagliato lo svantaggio dallo 0-20 al 6-20, prima di un'altra doppietta di Monardi, prima 29 yards su Bissell poi 20 su Finadri, entrambe trasformate su calcio da Francesco Diaferia, kicker al posto dell'ancora infortunato Andrea Vergazzoli. Nel secondo tempo Parma ha lasciato in campo i titolari della difesa per parte del terzo quarto, sostituendone poi almeno otto e gestendo la situazione con le rotazioni anche in attacco e l'utilizzo di giocatori inediti per schemi antichi e veterani per schemi nuovi, che sono poi solo una parte di quelli del playbook 2011 («non è tanto diverso dal passato, ma di sicuro ne utilizzeremo più pagine rispetto a prima!» aveva detto la scorsa settimana il coach, Andrew Papoccia), mentre era evidente lo sforzo dei Doves di operare sul campo quel che non era stato possibile fare in allenamento, cioé progredire con la furia delle ripetizioni di schemi. Un numero maggiore di sprint out di White, ovvero ricevere il pallone dal centro e scattare immediatamente da un lato - preferibilmente quello destro, per ovvi motivi legati alla dinamica di lancio - per cercare il ricevitore che attraversando il campo ti segue specularmente qualche yard più avanti; oppure slant, cioé i lanci rapidi verso il centro del campo al ricevitore che sullo snap parte veloce in diagonale, frapponendosi tra la palla e il difensore e dunque eliminando (in teoria) una percentuale di rischio, fermo restando che poi bisogna che il pallone arrivi e sia preso. Così facendo i Doves hanno segnato i loro due touchdown dell'ultimo quarto, chiusosi 12-0 per loro, a buoi già ruminanti nella lontana prateria, ma con la soddisfazione parziale di poter chiudere la porta della stalla e accorgersi che non era stata del tutto divelta. Uno poi scende in campo (una benedizione che si possa fare: il giorno in cui anche qui i rapporti tra protagonisti e media dovessero essere regolati da incravattati dal linguaggio del marketing ci daremmo all'esilio volontario dal football, dopo quello non voluto del decennio scorso), teme di trovare spiriti spezzati dal confronto impari e scopre invece, oltre alle espressioni di... noia anche di alcuni vincitori, quasi dispiaciuti di uno spettacolo non esaltante e ulteriormente peggiorato dalla pletora di flag che ha frantumato l'azione e anche la pazienza di molti, i sorrisi di un terzo tempo (o quinto quarto?) mai sufficientemente sottolineato, rischiando allora di cambiare l'idea che si era insinuata nella tribuna dove, come noto, siamo (prima persona plurale) tutti eredi incompresi dei più grandi general manager e di Bill Walsh e sappiamo sempre come gestire un roster e una società meglio di chi lo fa realmente e si espone alla figuraccia piuttosto che non provarci neppure. Ecco tutto, in pensieri liberamente accostati. Non scriveremo null'altro della II giornata di Italian Football League perché null'altro riusciremo a seguire direttamente, oggi: non è escluso un filo diretto con Scandiano per l'interessante Hogs-Rhinos, ma i nostri 24 lettori non si aspettino nulla, per i motivi spiegati nel post precedente, e comunque per l'attualità ci sono i siti istituzionali, ifleague.it e fidaf.org, che hanno iniziato la stagione con un eccellente lavoro informativo e di dettagli. Alla prossima.
venerdì 25 marzo 2011
In fiduciosa attesa
Questo blog è in stasi di alcuni giorni, ma riprenderà con forza la prossima settimana. Sto completando un libro sul football, libro che sostanzialmente avevo iniziato oltre 20 anni fa senza mai avere il tempo di proseguire. Ora il tempo, nel bene o nel male, c'è, e il risultato si vedrà il mese prossimo. Sabato però uscirò dall'isolamento per andare a vedere Doves-Panthers, e se avrò tempo ne parlerò qui. Grazie a tutti.
sabato 19 marzo 2011
Spazio pubblicitario autogestito
Senza ulteriore commento, per chi vuole leggere l'articolo di Parma Qui nella pagina linkata...
venerdì 18 marzo 2011
Parma, sabato 19 marzo
Non faccio altro che un copia-incolla dai vari comunicati che i solertissimi Panthers producono ogni giorno. Sabato, domani, c'è il Panthers Day presso il - che altro? - Barilla Center, centro commerciale situato qui. Con questo programma: alle 9.30 al cinema The Space proiezione di Any Given Sunday (Ogni maledetta domenica), film che non ho amato per nulla ma questi sono affari miei. Ingresso 4 euro. A seguire dibattito - massì! - con i giocatori e allenatori americani.
Alle 15 presso la libreria all'interno del Barilla Center presentazione del libro Jack Kerouac Halfback, di Fausto Batella, a cura del sottoscritto (domande, domande, per carità, non fatemi parlare per un'ora!).
Alle 16 Giochi football alla Playstation, prova di lancio e giochi vari.
Alle 18 presso la piazzetta presentazione dei Panthers, che il giorno dopo, alle 14 allo stadio di Moletolo, apriranno la stagione contro i SeaDoo Elephants di Catania, nella (voluta) ripetizione dell'Italian Superbowl del 2010.
Alle 15 presso la libreria all'interno del Barilla Center presentazione del libro Jack Kerouac Halfback, di Fausto Batella, a cura del sottoscritto (domande, domande, per carità, non fatemi parlare per un'ora!).
Alle 16 Giochi football alla Playstation, prova di lancio e giochi vari.
Alle 18 presso la piazzetta presentazione dei Panthers, che il giorno dopo, alle 14 allo stadio di Moletolo, apriranno la stagione contro i SeaDoo Elephants di Catania, nella (voluta) ripetizione dell'Italian Superbowl del 2010.
mercoledì 16 marzo 2011
Tre giorni a Milano
Era giusto andare, era giusto studiare, era giusto approfondire: in una parola, imparare. Era giusto ma non tutti hanno raccolto il messaggio, ed è un peccato, fermo restando che si giocava una giornata di campionato e che non è agevole liberarsi dal lavoro e dalle mille trappole della vita quotidiana che impediscono all'essere umano di seguire le proprie passioni e le proprie inclinazioni.
Era giusto essere a Milano per il clinic organizzato dalla Fidaf e dall'Afc Italy con la collaborazione di Rhinos e Seamen. Tre coach NFL, di cui due attivi, Dave Toub e Jon Hoke dei Bears, e il terzo, il più famoso di tutti, Steve Mariucci, ex head coach dei SF 49ers e dei Detroit Lions e attualmente commentatore di NFL Network. Commentatore così come era coach: esuberante, esplosivo, energico, che sia o meno per «l'italiano che è in me», come ha detto, ricordando le proprie origini umbre e la storia del padre, nato in Italia e dotato evidentemente di un intelletto superiore, se una volta emigrato negli Stati Uniti non è solo diventato padrone della lingua svergognando inconsciamente tutti gli stranieri che dopo decenni ancora parlano poco più del proprio dialetto, ma persino professore di inglese. La località era Iron Mountain, nella Upper Peninsula del Michigan: un'incongruenza amministrativa, perché la Upper Peninsula è geograficamente un proseguimento del Wisconsin (dista nemmeno due ore d'auto da Green Bay) e al Michigan è collegata solo da un ponte. A Iron Mountain, ma questa è storia vecchia e ben nota a chiunque abbia un'infarinatura di sport americano, Mariucci crebbe assieme a Tom Izzo, il grande coach di basket di Michigan State, che ha avuto l'amico come ospite a molte edizioni della Final Four cui MSU ha partecipato.
Il football visto a Milano, dunque. Tre giorni di spiegazioni e lezioni a mio avviso estremamente interessanti. Non sono un allenatore - anche se mi sarebbe sempre piaciuto esserlo - e dunque non ho le conoscenze specifiche per capire fino a che punto si sia appreso qualcosa di nuovo, ma sono rimasto affascinato da quello che ho visto sullo schermo della sala riunioni dove si sono svolti gli incontri. Che i coach NFL, tra l'altro tra i migliori nel loro settore, si siano dimostrati affabili e disponibili non mi ha sorpreso, dato che ho avuto spesso a che fare con allenatori americani, anche di basket, totalmente privi di arie, specialmente quando è il momento di fare ciò che amano fare, ovvero parlare del loro sport di fronte a persone competenti e preparate, il che naturalmente esclude che di solito nella platea ci siano giornalisti. Ottimo coach Toub nel parlare di special team: aspetto spesso trascurato, non solo perché obiettivamente in Italia non c'è tempo per occuparsi a lungo di questa fase del gioco, ma anche perché è meno agevole anche per gli addetti ai lavori guardare con attenzione ad aspetti apparentemente nascosti. Particolarmente interessante la spiegazione che ha riguardato il kickoff return team, con le disposizioni dei giocatori della prima linea e i movimenti, non immediati all'occhio che cerca di cogliere tutto con un solo sguardo, della wedge, chiamiamola così anche se nella sua struttura "serrata" è ormai fuorilegge da qualche anno. Si sono colti poi i particolari che ogni coach inserisce di propria testa, le differenze tra un allenatore e l'altro, di pura filosofia. Coach Toub ad esempio non vuole nel return team nessun uomo di linea, né d'attacco né di difesa, perché ha bisogno di movimenti di corsa e di potenziale maneggiamento di palla che difficilmente si riscontrano negli OL e DL. Facile dunque immaginare che nei Bears non accadrà mai, finché Toub ne gestirà gli special team (e se non ci saranno inserimenti causa infortuni), quel che avvenne lo scorso anno durante New England-Green Bay, con la OG dei Pats Dan Connolly a ritornare un kickoff per 71 yards.
Jon Hoke, poi, nella seconda giornata. 54 anni invisibili, vista la forma fisica, ha una carriera variegata: è stato a lungo assistente a livello di college, arrivando anche ad essere defensive coordinator di Florida sotto Steve Spurrier, che ha ricordato con un sorriso ed una battuta («diciamo che è un personaggio... singolare»), poi dal 2002 al 2009 ha allenato i defensive back degli Houston Texans passando successivamente ai Chicago Bears. Ma dal 1994 al 1998 era stato nello staff della University of Missouri, e lì aveva conosciuto Brock Olivo, attuale coach dei Marines Lazio e della Nazionale ma in precedenza grande protagonista proprio a Mizzou - dove hanno ritirato la sua maglia, massimo onore possibile - e poi pro nella NFL con i San Francisco 49ers e soprattutto i Detroit Lions, di cui divenne capitano degli special team. «Brock rappresentò la svolta per noi a Missouri - ha detto Hoke - Prima di lui non si vinceva mai, da quando arrivò lui cominciammo a vincere. Una volta chiudemmo una partita giocando per 8 minuti di fila la stessa azione: palla a Brock e avversari che non riuscivano a fermarlo. Ricordo ancora il canto dei tifosi, ritmato: 'Brock O-Livo!'». Hoke, pescando nel suo passato come defensive coordinator, non ha esaminato solo il ruolo dei defensive back (che sono cornerback e safety) ma la filosofia di tutta la difesa, spiegando in maniera molto efficace quale sia l'atteggiamento dei Bears, che giocano una 4-3 base (si intende come base la difesa utilizzata in condizioni normali, al primo e secondo down) ispirata ai principi della Tampa 2, che lì viene chiamata però Over 2. Di fatto, Chicago gioca in maniera molto semplice, puntando più sulla perfetta e rapida («siamo probabilmente la più veloce difesa NFL») esecuzione dei propri compiti da parte di ciascun giocatore che su costanti modifiche della formazione, come accade - peraltro con buoni risultati - altrove. Particolarmente interessante il sistema di valutazione dei cosiddetti loafs, cioé delle "dormite": momenti di gioco in cui un giocatore non dà il massimo di sé. Lo staff dei Bears non ha problemi, per motivare i giocatori, a dire ad alta voce in ogni riunione tecnica di revisione dei filmati il nome del giocatore che in una specifica azione non è parso dare il massimo: e quando il capitano o la superstar si ritrova menzionato in una stanza piena di colleghi, l'incentivo a non trovarsi più in quella situazione è enorme. Loafs sono: cambiare velocità di corsa all'improvviso (segnale che PRIMA non correvi al massimo), restare troppo a lungo per terra dopo un contatto se non si è infortunati (il principio della "stufa accesa", per cui il giocatore deve trattare il terreno come se scottasse e rialzarsi subito), schivare un colpo che si poteva dare, farsi superare nella corsa da un compagno teoricamente più lento. In una partita da circa 60 azioni, i Bears hanno avuto nel 2010 una media di 90 "dormite", piuttosto alta e dunque da troncare decisamente nella prossima stagione, se e quando inizierà. Risparmio al lettore il dettaglio degli esercizi svolti poi sul sintetico del Vigorelli, ma molto interessanti, specialmente quelli che possono aiutare un linebacker interno a disfarsi del cut block, il blocco basso, portato dall'uomo di linea d'attacco che sostanzialmente si butta di traverso sulle gambe - manovra consentita in un arco spaziale limitato - e passo ad una considerazione importante per capire un'ulteriore sfaccettatura del lavoro dei Bears in difesa: lo staff infatti nello studiare i filmati acquisisce dati come il numero di volte in cui una squadra avversaria corre (invece di lanciare) al primo down, ma li utilizza per farsi un'idea senza comunicare nulla di specifico ai giocatori. «Se comunichiamo ai nostri che la squadra X al primo down corre nel 70% dei casi, c'è il rischio che il giocatore si preoccupi prima di tutto della corsa e faccia magari un passo nella direzione della linea di scrimmage cercando di indovinare l'azione: in quel caso hai solo il 70% di probabilità di essere nel giusto, e un ampio 30% di probabilità di sbagliare. Se non diciamo nulla, il nostro giocatore dovrà leggere la situazione e valutare, e le chances di una decisione corretta aumentano».
Mariucci, infine. Che ha proiettato due filmati che lo ritraggono nel corso delle sue esperienze con 49ers e Lions, mostrandone tutta la carica, l'energia, l'umanità non disgiunta dalla severità nel chiedere a ciascun giocatore di svolgere in pieno il proprio ruolo. A San Francisco aveva avuto sei stagioni buone, con 57 vinte, 39 perse e 4 partecipazioni ai playoff, ma dopo la sconfitta contro Green Bay nella finale di conference del 1997 non era più riuscito ad avanzare fino a quel punto, chiudendo con 3-4 nei playoff. Scelto da Matt Millen per rialzare i Detroit Lions, aveva avuto 5-11 e 6-10 nelle due prime annate, prima di essere licenziato sul 4-7 a novembre 2005. Da quel momento, nonostante varie voci che lo hanno collocato di qua e di là (compresi i Packers, dove era stato per 4 anni Qb coach e questo voleva dire Brett Favre, cui è legatissimo), non ha più allenato, diventando commentatore tecnico, nel suo stile ricco di enfasi ed entusiasmo, per NFL Network. A parte il probabile desiderio di tornare a fare quel che gli piace di più, ovvero stare su un campo (ricordo che vinse anche un titolo NCAA Division II come quarterback di Northern Michigan, nel 1975), Mariucci non ha problemi economici, visto che il contratto con i Lions prevedeva un compenso di 25 milioni di dollari garantiti, ovvero pagabili anche in caso di sollevamento anticipato dall'incarico. E la sua lezione è stata entusiasmante, come ho già scritto. Ha distribuito a tutti una copia ridotta di un game plan, ovvero del manuale di preparazione ad una partita, scegliendo 49ers-Packers del 15 dicembre 2002. Affascinante, anche per chi avesse già avuto tra le mani materiale simile, perché non scaricato da pdf ma "vivo", con tanto di appunti scritti a mano da Mariucci come coronamento emotivo di quel che era contenuto, in forma più razionale, all'interno. In un angolo spicca un "Hit B. Favre!!!" sul quale il coach stesso ha sentito il bisogno di chiarire, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno: «Ho allenato Brett per quattro anni e lui per me è come un figlio [cresciutello, ndr], ma come coach della squadra avversaria devo essere sicuro che i miei difensori gli siano addosso più possibile». Una parte corposa della lunga (5-6 ore) lezione di Mariucci è stata impostata sull'analisi del game plan in tutte le sue forme, dalle formazioni difensive e offensive dei Packers alle corse e ai lanci che lo staff di San Francisco aveva isolato, per quella specifica partita, come potenzialmente efficaci. In precedenza, Mariucci aveva elencato i compiti e i requisiti per un coach ed uno staff, tra i quali frequenti e importanti gli aspetti legati al rapporto con i giocatori. «Use of player's name", ad esempio: «non rivolgetevi mai ad un giocatore con "tu" o con il semplice numero, dovete chiamarlo per nome, per renderlo partecipe e non solo una entità anonima». Oppure «Rapport with ALL players», per avere un contatto con tutti i giocatori e non solo con i veterani o quelli di maggior talento. Interessante la suddivisione dei giocatori stessi in quattro categorie: 1) leader (non serve spiegazione) 2) producer (chi produce rendimento e/o statistiche) 3) role player (riserva/(comprimario che ricopre un ruolo specifico, ad esempio il 3rd down back, ovvero il running back che entra in campo al 3° down) 4) chemistry guy (chi "fa spogliatoio"). Favre, secondo Mariucci, era 1-2-4, ma ci si può muovere di categoria in categoria con il tempo e con il crescere delle doti e della sicurezza in sé. Cruciale l'importanza che il coach dava ai chemistry guys: «un anno mi si è infortunato gravemente Garrison Hearst [il running back, ex Georgia, ndr] ma io l'ho tenuto e pagato per altre due stagioni senza che giocasse, e solo perché era un eccezionale uomo-spogliatoio. Poi nel 2001 è tornato in campo ed è stato il primo giocatore NFL a riprendere a giocare nonostante una necrosi all'osso, venendo anche eletto Comeback Player of the Year». Infine, le dimostrazioni pratiche nella tecnica di arretramento (drop back) e di movimento del quarterback, condotte nel salone dell'hotel, per l'impossibilità di marciare fino al Vigorelli a causa del maltempo. «Avrei bisogno di altri due giorni» ha chiuso, rendendosi però conto che il 90% dei suoi ascoltatori, rapiti, doveva tornare a casa perché era domenica sera, e il lunedì, per chi fa football in Italia, è giorno di lavoro normale.
Era giusto essere a Milano per il clinic organizzato dalla Fidaf e dall'Afc Italy con la collaborazione di Rhinos e Seamen. Tre coach NFL, di cui due attivi, Dave Toub e Jon Hoke dei Bears, e il terzo, il più famoso di tutti, Steve Mariucci, ex head coach dei SF 49ers e dei Detroit Lions e attualmente commentatore di NFL Network. Commentatore così come era coach: esuberante, esplosivo, energico, che sia o meno per «l'italiano che è in me», come ha detto, ricordando le proprie origini umbre e la storia del padre, nato in Italia e dotato evidentemente di un intelletto superiore, se una volta emigrato negli Stati Uniti non è solo diventato padrone della lingua svergognando inconsciamente tutti gli stranieri che dopo decenni ancora parlano poco più del proprio dialetto, ma persino professore di inglese. La località era Iron Mountain, nella Upper Peninsula del Michigan: un'incongruenza amministrativa, perché la Upper Peninsula è geograficamente un proseguimento del Wisconsin (dista nemmeno due ore d'auto da Green Bay) e al Michigan è collegata solo da un ponte. A Iron Mountain, ma questa è storia vecchia e ben nota a chiunque abbia un'infarinatura di sport americano, Mariucci crebbe assieme a Tom Izzo, il grande coach di basket di Michigan State, che ha avuto l'amico come ospite a molte edizioni della Final Four cui MSU ha partecipato.
Il football visto a Milano, dunque. Tre giorni di spiegazioni e lezioni a mio avviso estremamente interessanti. Non sono un allenatore - anche se mi sarebbe sempre piaciuto esserlo - e dunque non ho le conoscenze specifiche per capire fino a che punto si sia appreso qualcosa di nuovo, ma sono rimasto affascinato da quello che ho visto sullo schermo della sala riunioni dove si sono svolti gli incontri. Che i coach NFL, tra l'altro tra i migliori nel loro settore, si siano dimostrati affabili e disponibili non mi ha sorpreso, dato che ho avuto spesso a che fare con allenatori americani, anche di basket, totalmente privi di arie, specialmente quando è il momento di fare ciò che amano fare, ovvero parlare del loro sport di fronte a persone competenti e preparate, il che naturalmente esclude che di solito nella platea ci siano giornalisti. Ottimo coach Toub nel parlare di special team: aspetto spesso trascurato, non solo perché obiettivamente in Italia non c'è tempo per occuparsi a lungo di questa fase del gioco, ma anche perché è meno agevole anche per gli addetti ai lavori guardare con attenzione ad aspetti apparentemente nascosti. Particolarmente interessante la spiegazione che ha riguardato il kickoff return team, con le disposizioni dei giocatori della prima linea e i movimenti, non immediati all'occhio che cerca di cogliere tutto con un solo sguardo, della wedge, chiamiamola così anche se nella sua struttura "serrata" è ormai fuorilegge da qualche anno. Si sono colti poi i particolari che ogni coach inserisce di propria testa, le differenze tra un allenatore e l'altro, di pura filosofia. Coach Toub ad esempio non vuole nel return team nessun uomo di linea, né d'attacco né di difesa, perché ha bisogno di movimenti di corsa e di potenziale maneggiamento di palla che difficilmente si riscontrano negli OL e DL. Facile dunque immaginare che nei Bears non accadrà mai, finché Toub ne gestirà gli special team (e se non ci saranno inserimenti causa infortuni), quel che avvenne lo scorso anno durante New England-Green Bay, con la OG dei Pats Dan Connolly a ritornare un kickoff per 71 yards.
Jon Hoke, poi, nella seconda giornata. 54 anni invisibili, vista la forma fisica, ha una carriera variegata: è stato a lungo assistente a livello di college, arrivando anche ad essere defensive coordinator di Florida sotto Steve Spurrier, che ha ricordato con un sorriso ed una battuta («diciamo che è un personaggio... singolare»), poi dal 2002 al 2009 ha allenato i defensive back degli Houston Texans passando successivamente ai Chicago Bears. Ma dal 1994 al 1998 era stato nello staff della University of Missouri, e lì aveva conosciuto Brock Olivo, attuale coach dei Marines Lazio e della Nazionale ma in precedenza grande protagonista proprio a Mizzou - dove hanno ritirato la sua maglia, massimo onore possibile - e poi pro nella NFL con i San Francisco 49ers e soprattutto i Detroit Lions, di cui divenne capitano degli special team. «Brock rappresentò la svolta per noi a Missouri - ha detto Hoke - Prima di lui non si vinceva mai, da quando arrivò lui cominciammo a vincere. Una volta chiudemmo una partita giocando per 8 minuti di fila la stessa azione: palla a Brock e avversari che non riuscivano a fermarlo. Ricordo ancora il canto dei tifosi, ritmato: 'Brock O-Livo!'». Hoke, pescando nel suo passato come defensive coordinator, non ha esaminato solo il ruolo dei defensive back (che sono cornerback e safety) ma la filosofia di tutta la difesa, spiegando in maniera molto efficace quale sia l'atteggiamento dei Bears, che giocano una 4-3 base (si intende come base la difesa utilizzata in condizioni normali, al primo e secondo down) ispirata ai principi della Tampa 2, che lì viene chiamata però Over 2. Di fatto, Chicago gioca in maniera molto semplice, puntando più sulla perfetta e rapida («siamo probabilmente la più veloce difesa NFL») esecuzione dei propri compiti da parte di ciascun giocatore che su costanti modifiche della formazione, come accade - peraltro con buoni risultati - altrove. Particolarmente interessante il sistema di valutazione dei cosiddetti loafs, cioé delle "dormite": momenti di gioco in cui un giocatore non dà il massimo di sé. Lo staff dei Bears non ha problemi, per motivare i giocatori, a dire ad alta voce in ogni riunione tecnica di revisione dei filmati il nome del giocatore che in una specifica azione non è parso dare il massimo: e quando il capitano o la superstar si ritrova menzionato in una stanza piena di colleghi, l'incentivo a non trovarsi più in quella situazione è enorme. Loafs sono: cambiare velocità di corsa all'improvviso (segnale che PRIMA non correvi al massimo), restare troppo a lungo per terra dopo un contatto se non si è infortunati (il principio della "stufa accesa", per cui il giocatore deve trattare il terreno come se scottasse e rialzarsi subito), schivare un colpo che si poteva dare, farsi superare nella corsa da un compagno teoricamente più lento. In una partita da circa 60 azioni, i Bears hanno avuto nel 2010 una media di 90 "dormite", piuttosto alta e dunque da troncare decisamente nella prossima stagione, se e quando inizierà. Risparmio al lettore il dettaglio degli esercizi svolti poi sul sintetico del Vigorelli, ma molto interessanti, specialmente quelli che possono aiutare un linebacker interno a disfarsi del cut block, il blocco basso, portato dall'uomo di linea d'attacco che sostanzialmente si butta di traverso sulle gambe - manovra consentita in un arco spaziale limitato - e passo ad una considerazione importante per capire un'ulteriore sfaccettatura del lavoro dei Bears in difesa: lo staff infatti nello studiare i filmati acquisisce dati come il numero di volte in cui una squadra avversaria corre (invece di lanciare) al primo down, ma li utilizza per farsi un'idea senza comunicare nulla di specifico ai giocatori. «Se comunichiamo ai nostri che la squadra X al primo down corre nel 70% dei casi, c'è il rischio che il giocatore si preoccupi prima di tutto della corsa e faccia magari un passo nella direzione della linea di scrimmage cercando di indovinare l'azione: in quel caso hai solo il 70% di probabilità di essere nel giusto, e un ampio 30% di probabilità di sbagliare. Se non diciamo nulla, il nostro giocatore dovrà leggere la situazione e valutare, e le chances di una decisione corretta aumentano».
Mariucci, infine. Che ha proiettato due filmati che lo ritraggono nel corso delle sue esperienze con 49ers e Lions, mostrandone tutta la carica, l'energia, l'umanità non disgiunta dalla severità nel chiedere a ciascun giocatore di svolgere in pieno il proprio ruolo. A San Francisco aveva avuto sei stagioni buone, con 57 vinte, 39 perse e 4 partecipazioni ai playoff, ma dopo la sconfitta contro Green Bay nella finale di conference del 1997 non era più riuscito ad avanzare fino a quel punto, chiudendo con 3-4 nei playoff. Scelto da Matt Millen per rialzare i Detroit Lions, aveva avuto 5-11 e 6-10 nelle due prime annate, prima di essere licenziato sul 4-7 a novembre 2005. Da quel momento, nonostante varie voci che lo hanno collocato di qua e di là (compresi i Packers, dove era stato per 4 anni Qb coach e questo voleva dire Brett Favre, cui è legatissimo), non ha più allenato, diventando commentatore tecnico, nel suo stile ricco di enfasi ed entusiasmo, per NFL Network. A parte il probabile desiderio di tornare a fare quel che gli piace di più, ovvero stare su un campo (ricordo che vinse anche un titolo NCAA Division II come quarterback di Northern Michigan, nel 1975), Mariucci non ha problemi economici, visto che il contratto con i Lions prevedeva un compenso di 25 milioni di dollari garantiti, ovvero pagabili anche in caso di sollevamento anticipato dall'incarico. E la sua lezione è stata entusiasmante, come ho già scritto. Ha distribuito a tutti una copia ridotta di un game plan, ovvero del manuale di preparazione ad una partita, scegliendo 49ers-Packers del 15 dicembre 2002. Affascinante, anche per chi avesse già avuto tra le mani materiale simile, perché non scaricato da pdf ma "vivo", con tanto di appunti scritti a mano da Mariucci come coronamento emotivo di quel che era contenuto, in forma più razionale, all'interno. In un angolo spicca un "Hit B. Favre!!!" sul quale il coach stesso ha sentito il bisogno di chiarire, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno: «Ho allenato Brett per quattro anni e lui per me è come un figlio [cresciutello, ndr], ma come coach della squadra avversaria devo essere sicuro che i miei difensori gli siano addosso più possibile». Una parte corposa della lunga (5-6 ore) lezione di Mariucci è stata impostata sull'analisi del game plan in tutte le sue forme, dalle formazioni difensive e offensive dei Packers alle corse e ai lanci che lo staff di San Francisco aveva isolato, per quella specifica partita, come potenzialmente efficaci. In precedenza, Mariucci aveva elencato i compiti e i requisiti per un coach ed uno staff, tra i quali frequenti e importanti gli aspetti legati al rapporto con i giocatori. «Use of player's name", ad esempio: «non rivolgetevi mai ad un giocatore con "tu" o con il semplice numero, dovete chiamarlo per nome, per renderlo partecipe e non solo una entità anonima». Oppure «Rapport with ALL players», per avere un contatto con tutti i giocatori e non solo con i veterani o quelli di maggior talento. Interessante la suddivisione dei giocatori stessi in quattro categorie: 1) leader (non serve spiegazione) 2) producer (chi produce rendimento e/o statistiche) 3) role player (riserva/(comprimario che ricopre un ruolo specifico, ad esempio il 3rd down back, ovvero il running back che entra in campo al 3° down) 4) chemistry guy (chi "fa spogliatoio"). Favre, secondo Mariucci, era 1-2-4, ma ci si può muovere di categoria in categoria con il tempo e con il crescere delle doti e della sicurezza in sé. Cruciale l'importanza che il coach dava ai chemistry guys: «un anno mi si è infortunato gravemente Garrison Hearst [il running back, ex Georgia, ndr] ma io l'ho tenuto e pagato per altre due stagioni senza che giocasse, e solo perché era un eccezionale uomo-spogliatoio. Poi nel 2001 è tornato in campo ed è stato il primo giocatore NFL a riprendere a giocare nonostante una necrosi all'osso, venendo anche eletto Comeback Player of the Year». Infine, le dimostrazioni pratiche nella tecnica di arretramento (drop back) e di movimento del quarterback, condotte nel salone dell'hotel, per l'impossibilità di marciare fino al Vigorelli a causa del maltempo. «Avrei bisogno di altri due giorni» ha chiuso, rendendosi però conto che il 90% dei suoi ascoltatori, rapiti, doveva tornare a casa perché era domenica sera, e il lunedì, per chi fa football in Italia, è giorno di lavoro normale.
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